Calma perduta

Come ritrovare la calma perduta?

di Enrica Lanteri

Lo stato di quiete e di ascolto interiore non è soltanto qualcosa che nasce dal silenzio, e non conduce all’immobilità o alla passività ferma. L’etimologia della parola “calma”, dal greco kauma, significa infatti “vampa, calore ardente”. Questo Mistero si svela a noi con l’esperienza…

Immaginiamo di aprire gli occhi ad un mattino di vacanza: il tempo è semplicemente meraviglioso, il mare e la spiaggia ci aspettano. C’è tutto il tempo del mondo, nessuna fretta di incasellare impegni. Possiamo respirare, finalmente, a fondo e assaporare la tranquillità tanto desiderata in altri momenti. Qualche pensiero inizia ad attraversare la mente, ma sembra fatto di sostanza trasparente e innocua, per cui si può lasciare che segua il suo percorso senza dargli troppa importanza.
La mattina sembra scivolare lenta e possiamo assecondare questa lentezza. Ecco, così va bene. Da questa prospettiva tutto si allinea in armonia: il corpo rilassato, la mente chiara, il cuore sereno. Nessuna preoccupazione, nessun contrasto. Questa è la calma: assenza di attrito, l’esterno e l’interno come levigate e trasparenti superfici in perfetta armonia.
Dimorare in questo stato benedetto lascia forse anche spazio all’intuizione che il nostro reale valore non appartenga a questo mondo, non stia in quello che pensiamo di essere o che leggiamo riflesso negli occhi degli altri, ma piuttosto in quella luce che accogliamo in noi e che mai smette di brillare, anche quando le ombre sembrano offuscarla. È uno spostamento di prospettiva che crea una sorta di lieve vertigine. La nostra identità usuale si incrina, piccole fessure di luce si insinuano nelle opache e solide strutture di personalità costruite in tanti anni di vita. Ma sono proprio queste strutture che, spesso, scopriamo essere quelle più vulnerabili: rigidi giganti dai piedi d’argilla che, al primo alito di vento, iniziano ad oscillare pericolosamente, pronti ad andare in frantumi se il vento soffia più forte e diventa tempesta.
Mentre ci prepariamo per uscire, arriva la telefonata di una cara amica. Parliamo di molte cose. La ascoltiamo con attenzione raccontare di sé e le raccontiamo di noi. Ad un certo punto però accade qualcosa, neanche il tempo di notarlo, e la prospettiva cambia bruscamente: una frase pronunciata da lei incautamente, se pure con le migliori intenzioni, è sufficiente per agganciarci alle difficoltà o alle disillusioni che stiamo vivendo o che abbiamo vissuto in passato. E subito siamo invasi da un dolore acuto e lacerante, che si trasforma rapidamente in una rabbia quasi incontrollabile. Spirali di pensieri fin troppo noti iniziano il loro vorticoso percorso nei soliti solchi mentali. Improvvisamente, vediamo tutto con occhi diversi. Lo sguardo si posa sulla mattina di prima, ma ogni cosa sembra aver perso il suo colore. Il cielo non è più così azzurro e anche il sole sembra un po’ offuscato. Eppure la mattina è sempre la stessa: che cosa è cambiato allora? La differenza sta forse nel nostro sguardo? Come è possibile che sia successo così, senza preavviso, in pochi istanti?
E la calma: dov’è adesso? E noi, dove siamo finiti? Basta davvero così poco per perdere l’equilibrio e cadere rovinosamente a terra quando già si pensava di aver spiccato il volo verso l’alto?
Proviamo a ritrovare la quiete di prima concentrandoci sul respiro, il nostro prezioso collegamento con la macchina fisica. Scendere dalla mente nel corpo, nel nostro essere radicati a terra, è un aiuto importante nei momenti di agitazione come questo.
La conversazione telefonica prosegue ancora un po’, ma ha perso il suo interesse: decidiamo di concluderla, un po’ frettolosamente, promettendo di richiamare presto, nonostante un sottile senso di colpa nei confronti della nostra amica per la brusca interruzione. Ci ripromettiamo di scusarci con lei alla prima occasione. Troppe voci si stanno accavallando dentro.
Sentiamo la necessità di riannodare i fili dell’armonia che si sono sciolti, così, da un momento all’altro. Ecco: cerchiamo di stare dentro di noi, invece di allontanarci ancora di più sparendo tra i pensieri e le emozioni che ci agitano, nonostante la difficoltà di essere testimoni di queste oscillazioni interiori. In questo ascolto potremmo magari sentire un nodo in gola, il bisogno di dare voce ad un pianto a lungo soffocato. Che cosa contengono queste lacrime? Forse l’angoscia della solitudine, o la sensazione di non essere stati realmente ascoltati e compresi da chi ci era più vicino. O forse molto altro. Comunque sempre un messaggio importante da ascoltare.
Quella meravigliosa intuizione di valore che prima ci accompagnava, sembra essere scomparsa nel suo opposto alla prima brezza imprevista, lasciando posto alla certezza della nostra fragilità. “La calma è la virtù dei forti” ripeteva spesso il padre di una mia cara amica. La calma è la virtù dei forti. “Certo, e tu non sei capace di essere forte!” interviene la voce severa di un giudice interno spettatore di questa fragilità, come se non ci fosse già abbastanza agitazione nel mio cuore. “Smettila di lamentarti una buona volta, basta soffrire per qualcosa che non dipende dalla tua volontà. Non imparerai mai. Devi controllarti.”
Cresce la tensione al volto e alle spalle, come se il corpo si preparasse a sopportare un peso enorme. Nonostante tutto, continuiamo ad ascoltare il respiro e anche quel nodo in gola che, lo sappiamo, ci parla di una parte di noi, una parte dolorante che in alcuni periodi della nostra vita, e magari anche adesso, ha occupato o occupa molto del nostro spazio interiore, pronta a prendere il sopravvento sulle altre parti. Proviamo a concentrarci su quello che vuole dirci, al di là della voce del giudice e del rumore invadente dei pensieri che corrono subito “al dopo” o ritornano insistentemente “al prima”. Lasciamo andare la tendenza a voler controllare le situazioni, gli altri e noi stessi, illusorio tentativo di immunizzarci dalle tempeste della vita.
Riusciamo ad incontrarla, questa parte che soffre, proprio in quel tempo presente in cui vibriamo nell’attenzione alle nostre sensazioni fisiche: il respiro, il calore e l’energia che scorrono in noi e ci fanno sentire vivi, il cuore che batte. In questa dimensione, tutto si fa semplice, bello e chiaro, pur continuando a rimanere a contatto con il dolore. È un’occasione per imparare a nuotare nelle profondità di noi stessi, come quando, ci sarà capitato qualche volta, abbiamo nuotato in un mare calmo, allontanandoci dalla riva verso il largo e accorgendoci di come le acque, che magari all’inizio ci facevano un po’ paura, siano diventate gradualmente sempre più limpide e il fondo maggiormente visibile. E abbiamo scoperto (o riscoperto?) di sentirci profondamente rilassati e sicuri in questo elemento. Anche nel contatto con il fondo.
Potrebbe essere allora che quel dolore bruciante di poco fa incominci a sciogliersi..

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