Conosci te stesso

Conosci te stesso

di Giovanna Di Girolamo

La consapevolezza nasce soprattutto dalla conoscenza interiore. È necessario compiere un atto psicologico di separazione da se stessi per creare una nuova istanza che possa osservarsi in modo onesto e non giudicante. Con il tempo, con tutto l’amore possibile.

Sul tempio di Apollo a Delfi campeggiava a caratteri cubitali l’iscrizione Conosci te stesso, esortazione e monito, al contempo, per coloro che si avvicinavano al tempio nella speranza di ricevere un messaggio dall’oracolo.
Con questo pensiero che le frulla per la testa, Viola cammina frettolosamente sul marciapiede della strada trafficata, che tutti i giorni da dieci anni percorre per andare al lavoro.
Da qualche mese frequenta un gruppo di studi iniziatici che si chiama “Conosci te stesso”. Oggi è il giorno dell’incontro settimanale, e lei non ha fatto gli esercizi di auto-osservazione che la guida ha assegnato al gruppo. Avrebbe dovuto registrare sul suo diario tutte le sue reazioni emotive alle sollecitazioni esterne, per esempio quelle suscitate dai colleghi di lavoro, o dai propri familiari.
Immersa nei suoi pensieri, proprio mentre sta per attraversare la strada sulle strisce, un automobilista frena di colpo a pochi centimetri da lei. «Ma sei scemo?» – gli grida spaventata – e con una mano fa un gesto elo-quente di invito a proseguire. Con il cuore ancora in preda alla tachicardia, affretta il passo. Guarda l’oro-logio: è in ritardo per la riunione di lavoro. «Conosci te stesso», pensa tra sé e sé, «Ho capito! ma se uno cerca di ammazzarmi, come minimo lo mando a quel paese!».
Nel frattempo, Marco arriva in ufficio e trova la segretaria con una busta verde. È un avviso di accerta-mento per delle imposte non versate cinque anni prima. Prende in mano la busta e comincia a sentire una rabbia feroce che gli sale dal petto e gli infiamma il viso. Tra imposta non versata, oneri di riscossione e more, l’importo è quasi triplicato. Comincia a sbattere sul tavolo tutto quello che trova: i fascicoli, la borsa con i documenti, il cellulare: «Maledizione!» esclama, «Questa è una persecuzione!». La segretaria prova a dirgli qualcosa per tranquillizzarlo, ma lui non la lascia neanche parlare: «Stai zitta tu! che ne sai di cosa vuol dire gestire un’azienda? Hai il tuo stipendio a fine mese e la sera te ne torni a casa tranquilla, mentre io devo combattere tutti i giorni per garantire a te lo stipendio! Credimi, quant’è vero Iddio, la chiudo questa azienda!». La segretaria abbassa gli occhi ed esce dalla sua stanza. Si rimette davanti al computer per rispondere alle e-mail, mentre le lacrime le rigano il viso.
Quella mattina anche la panettiera del paese vicino è immersa nei suoi pensieri. Ha iniziato una relazione con un uomo sposato che da qualche giorno non si fa vivo. «Ci risiamo», pensa, «È di nuovo sparito senza darmi spiegazioni». Guarda in maniera ossessiva il cellulare, nella speranza di ricevere un messaggio o una chiamata, ma nulla. «Angela sei sempre la solita», dice a se stessa, «Dai tutto per amore e poi scopri di es-serti innamorata ancora una volta di uno uomo che ti sfrutta!». Il pensiero non fa in tempo a passarle nella mente, che un cicaleggio illumina lo schermo del cellulare: «È lui!», pensa. Apre WhatsApp e legge: «Si-gnora Angela buongiorno, posso ordinarle due teglie di pizza alla romana per stasera? Siamo 10 persone». «Certo, può passare per le 8.00», risponde, poi rimane qualche altro secondo a guardare il telefono lascian-do andare un sospiro sconfitto.
La sera dell’incontro di gruppo, la guida, dopo avere condotto una piccola meditazione, chiede: «Come è andata questa settimana con l’esercizio di auto-osservazione?». Maria prende la parola per prima e racconta di avere annotato la sua reazione di fronte alla telefonata della madre, che recriminava la sua assenza e il fatto che non la chiamasse mai. «Mi sono resa conto di avere sentito una morsa allo stomaco, come quando ero bambina e mi sentivo in colpa per i suoi continui esaurimenti nervosi. Un nodo mi ha stretto la gola e ho sentito che stavo ingoiando il mio senso di colpa, come se la sua infelicità dipendesse da me. Mentre continuava a parlarmi al telefono, mi sono chiesta: come può la sua felicità dipendere da me? Perché mi sento in colpa? Improvvisamente mi sono venute in mente le immagini di me bambina che rimanevo im-mobile e atterrita ai piedi del suo letto, mentre la zia e mio padre cercavano di farla rinvenire dagli sveni-menti che la prendevano durante le sue crisi nervose. Ho rivisto quella bambina, e ho avuto pena per lei. Nessuno ha mai provato pena per me. Nel momento in cui ho compreso questo, ho sentito la rabbia impos-sessarsi di me e ho cominciato a urlarle al telefono che doveva smetterla di farmi sentire in colpa e che non sono qui per renderla felice, né per occuparmi di lei. Lei ha provato a ribattere, ma io ho detto basta: sono stanca delle tue recriminazioni, e ho riagganciato il telefono».
La guida le chiede: «Ora come ti senti nel raccontare questo al gruppo? Provi ancora il senso di colpa?». «Lì per lì mi sono sentita liberata, ma adesso sento di nuovo quella sensazione di quand’ero bambina». «Bene», risponde la guida, «Accogli questa emozione e stalle accanto».
Marco prende la parola e racconta della sua reazione del mattino con la sua segretaria. Si è reso conto di avere scaricato su di lei la sua paura di non farcela e tutto il suo disprezzo per se stesso. «Quando ero bam-bino mio padre mi trattava come uno stupido; mi ripeteva continuamente che sarei stato un buono a nulla, e se sbagliavo qualcosa era subito pronto a punirmi. Mi diceva che ero un debole, una femminuccia e che il mondo mi avrebbe fatto a pezzi. Mi sono reso conto che la busta verde dell’agente di riscossione mi ricorda lui e che è da lui che mi sento perseguitato. Inoltre, il tentativo della mia segretaria di sostenermi mi ha fatto sentire debole. Non voglio essere una femminuccia…». «Grazie Marco per la tua condivisione», dice la guida, «mi chiedo solo, cosa accadrebbe se tu fossi una femminuccia? Mi spiego meglio: cosa accadrebbe se tu non riuscissi a risolvere un problema e dovessi ammettere la tua fragilità?». «Non lo so», risponde Marco, «Non me lo sono mai permesso»…

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