è necessaria la sofferenza?

É necessaria la sofferenza?

Rubrica Lettere alla redazione

Cara redazione,
ho avuto l’impressione che, nella presentazione dello scorso numero della rivista, si identificasse troppo l’anima con la ferita, il pianto e la sofferenza. Tuttavia è un argomento che mi interessa, anche se non saprei pienamente descrivere il suo ruolo nella mia vita. Quindi volevo chiedervi: è necessaria la sofferenza? Senza di essa non avremmo un’anima o, per lo meno, non arriveremmo a conoscerla?

Chi di noi non si è mai posto questa domanda? Chi, durante un momento doloroso, non si è chiesto: «A cosa serve tanto dolore? Che cosa posso fare con questa sensazione nel petto che mi soffoca, che mi paralizza? Voglio che scompaia».
E forse hai ragione, invece di parlare di luce, calma e pace, a volte in queste pagine si parla di dolore, tristezza e paura, avvicinandosi a quell’oscurità che abita gli angoli più profondi del nostro cuore. Ma l’obiettivo non è rimanere lì. Non è vivere in quel luogo tenebroso e asfissiante che tutti abbiamo dentro. L’obiettivo è tutto il contrario: è essere capaci di donare una goccia di calma, consolazione, attenzione, a tutto ciò che ne ha bisogno dentro di noi.
Io non so perché il dolore esiste, e non credo neppure che soffrire di più mi renda maggiormente consapevole o degno di valore. So solo che la sofferenza è presente, perché la sento dentro di me e la percepisco negli occhi delle persone che mi circondano. E sento anche la forza potente che ci spinge a nasconderla, a renderla silenziosa. Ma ho deciso che non voglio più costringere il dolore a tacere, perché ho compreso che quanto più lo nascondo, maggiore sarà il potere che esercita su di me.
Davanti al dolore sembra spesso di avere solo due possibili soluzioni: nasconderlo, dicendo agli altri e a noi stessi “non è niente, sto bene, non è così grave”; oppure, al contrario, esplodere, quando non riusciamo più a sopportarlo, lasciandoci governare dalle sue diverse manifestazioni: rabbia, un’enorme tristezza inconsolabile, una paura senza limiti…
Ma dato che il dolore esiste, scelgo di trattarlo in modo diverso, voglio che si sieda al mio fianco, senza nascondersi o sentirsi rifiutato. Desidero imparare a guardare la paura negli occhi, per poterle trasmettere un po’ di tranquillità; A prendere la tristezza per mano, mentre asciugo le sue lacrime con cura e dolcezza; A raccontarle una storia senza senso, per rubarle un sorriso innocente.
Perché, in cosa consiste la felicità? Nell’avere un lavoro che mi permetta di condurre uno stile di vita elevato? Nel fare in modo che il mondo riconosca il mio valore? Nel sentirmi accompagnato dalle persone che mi amano? Nel godere di una buona salute?… Forse, ma ci sono persone che, pur avendo tutto questo, continuano a sentire profondamente che gli manca qualcosa.
Nell’antica Grecia esisteva un termine che esprimeva il concetto di felicità: eudaimonia. Letteralmente significa “far emergere il daimon”. La nostra cultura ha tradotto daimon con demonio, associandolo ad un oppositore, ad una forza che conduce al male. Ma per gli antichi greci il termine non aveva lo stesso significato. Daimon era uno spirito, o energia emotiva, intermediario tra gli dei e l’uomo. E forse oggi questi spiriti potrebbero sembrarci qualcosa di lontanissimo, nato dalla superstizione o dall’ignoranza. Ma, siamo proprio sicuri che sia così? Quanta differenza esiste tra quei daimones e certe forze emotive come la tristezza, l’allegria, la rabbia, la gelosia o l’amore? Forze che compaiono nella nostra vita, costruiscono e distruggono a loro piacimento, per poi scomparire di nuovo? Felicità, eudaimonia, nel mondo greco significava rendere coscienti queste sfuggenti e potenti energie. Significava prestargli attenzione, conoscerle, scoprire il loro nome e la loro origine, fornirgli un luogo degno nella vita, così da evitare che siano loro a prendere il controllo con violenza, spinte dalla rabbia e dalla disperazione dovute alla mancanza di attenzioni e alla dimenticanza dell’uomo.

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