
Il corpo tra sacro e profano
di Paola De Vera D'Aragona
Un approfondimento sul significato e sulle risorse del nostro corpo nella dimensione della crescita spirituale, con uno sguardo alle varie tradizioni mistiche e al loro approccio. Ne emerge un legame imprescindibile fra soma e spirito, nella direzione del lavoro alchemico.
«L’hai fatto
poco meno di un dio,
di gloria e di onore lo hai coronato.»
Salmo 8,6
Corpo esaltato, idolatrato, fotografato, filmato, patinato… Ma anche corpo denigrato, disprezzato, considerato unicamente nella sua impermanenza… messo in continua antitesi con l’anima e con lo Spirito: corpo come prigione dall’anima.
L’ortodossia considera il corpo come qualcosa da sacrificare a finalità più elevate ed è descritto come origine di confusione e di tentazioni per l’anima. Eppure, Agostino scriveva: «Non pensiate, o fedeli, che Dio abbia spedito sulla terra il suo figlio prediletto per salvare le sole anime. Al Padre celeste importa dell’uomo nella sua interezza, corpo compreso».
La dicotomia spirito/materia, bene/male, anima/corpo ha comportato la ricerca di un dio senza materia, una sorta di forza trascendente quasi estranea all’uomo, comunque non alla portata della sua carne. Così, il sacro ha trovato come suo aspetto contrapposto il profano. Si cerca un dio fuori dal mondo, quasi estraneo al suo stesso creato, annullato dalla materia intesa come terra degli inferi.
La spiritualità dovrebbe invece compenetrare sempre di più l’aspetto materiale, in modo che avvenga un’armonizzazione dei due estremi: questo sarebbe il punto di equilibrio che siamo chiamati a raggiungere. La soluzione non consiste nel disprezzo del mondo: siamo geomorfi e teomorfi, e il compito nella vita è esperire entrambe le dimensioni, senza scartare il corpo e la materia.
Il corpo ha sensi nascosti che si possono scoprire meglio, ricominciando a sognare e a immaginare, invece che ricorrere al solito soppesare razionalmente l’aspetto fisico, contare anni, disturbi e malattie. È vero, naturalmente il corpo passerà, ma mentre lo viviamo, è importante individuarne la sacralità della trasformazione.
La forma umana è una forma espressiva del divino, una manifestazione della vita divina. È l’archetipo dell’unità di uomo e Dio che ognuno porta in sé, e che la figura di Gesù Cristo ha pienamente manifestato.
Il divino vive in noi, nella nostra anima e nel nostro corpo. Il nostro compito è quello di sviluppare tutte le nostre potenzialità mentali, psichiche, sensoriali, profonde e spirituali perché vi possa fiorire il divino e possiamo farne esperienza.
Un’evoluzione completa dell’individuo compenetra tutti i livelli di consapevolezza, anche quelli psichici e fisici. Dal punto di vista della natura più profonda non esiste alcuna separazione tra superiore e inferiore, tra materiale e spirituale. Per sperimentare l’integrità, dunque, anche il corpo è fondamentale.
Kabir canta in una poesia:
“Questo corpo è la sua lira (di Dio)
Egli tende le sue corde e trae la melodia di Brahma
Quando le corde si rilasciano e le chiavi si allentano
Questo strumento di polvere deve tornare polvere”.
Kabir dice: nessuno, se non Brahma, può suonare questa melodia.
Può esserci qualcosa senza un corpo che lo provi? Senza un corpo per sperimentarla, la beatitudine sarebbe sconosciuta. Basti pensare che, nella lingua ebraica, sacra per eccellenza, il corpo viene definito con ben 17 parole diverse.
La grandezza dell’uomo sta nella sua possibilità di crearsi, di compiersi, stando attenti che questo non significhi raggiungere uno stato definitivo e chiuso. Il corpo si ricrea – le cellule muoiono e rinascono -, e si rinnova costantemente attraverso il gioco dei due principi Maschile e Femminile, esattamente come accade al mondo, in una creazione continua sia dal punto di vista biologico che interiore.
Il corpo, in senso spirituale, si “costruisce” in tanti modi: nella meditazione, nel canto, nell’arte, nella danza (ad esempio, nei movimenti sacri di Gurdjieff), cioè in tutte quelle azioni che sono incontri col profondo. Il corpo può portare risorse alla ricerca interiore quando è risvegliato e utilizzato in modo consapevole. Noi tendiamo a considerare la meditazione, per esempio, più un processo che una tecnica, come una comprensione che può sgorgare dall’interno.
Corpo come vaso
Ci sembra interessante notare che due studiosi della Tradizione ebraica hanno immaginato il corpo come un’unica tematica in triplice forma: l’Avere, l’Essere e il Divenire, che possiamo collegare al processo alchemico.
L’alchimia parla del corpo come del vaso di trasformazione.
L’ambito di indagine dell’Alchimia è l’uomo, la possibilità dell’uomo di trascendere, di trasmutare la propria natura fino a diventare oro puro, incorruttibile. Il fine alchemico della trasmutazione in oro dei metalli vili è, dunque, immagine della trasmutazione delle parti terrestri dell’uomo in un elemento puro che potremmo chiamare coscienza pienamente evoluta. Ogni trasmutazione è scandita dal solve e dal coagula, da un momento di morte/disfacimento a uno di rinascita e compattamento, in continua successione e divenire. Un’alternanza armoniosa tra momenti opposti, dove per Armonia si intende il ricomporre le cose terrestri secondo schemi celesti.
L’Alchimista indaga la materia scandagliando contemporaneamente la propria anima al fine di ottenere trasmutazioni fisiche e spirituali del tutto simmetriche e complementari, coincidenti e sincroniche. Concordiamo con Jung dunque, che ha più volte sottolineato come il processo alchemico corrisponda al processo di individuazione.
Tornando ai due autori sopra citati, l’Avere potrebbe corrispondere all’Opera al Nero, l’Essere all’Opera al Bianco e il Divenire all’Opera al Rosso.
Il corpo nelle tradizioni
La tradizione ebraica include il corpo in Tif’eret, la Bellezza, punto di riunione e di manifestazione di tutte le possibilità, centro della ruota solare che collega l’alto e il basso, la destra e la sinistra e abbraccia il tutto nel fuoco dell’armonia del Principio. È il sole dell’Essere che ognuno dovrebbe riuscire a far brillare in sé.
Tif’eret comprende tutti i colori, i suoni, i profumi, i ritmi e li esalta nell’unità perfetta del loro incontro. Tif’eret è vedere il legame tra tutte le cose. È vuoto perfetto e totale attrazione, centro di ogni movimento, misura di ogni ritmo, non può farsi conoscere se non velandosi.
Tif’eret è Armonia.
L’etimo di Tif’eret contiene f’ar (fecondità) e perot (frutti), riunendo quindi tenebre e luce. In qualche modo, vivere Tif’eret sarebbe sposare tutte le contraddizioni.
La mistica ebraica parla dell’evoluzione dell’individuo da Malkut (la terra, il corpo) all’En Sof, il sottile che per definizione non può essere pensato, né misurato, né posseduto.
Impossibile non riallacciare il tema dell’uomo con quello dell’albero, in modo specifico pensando all’albero delle Sefirot di questa stessa Tradizione.
Nella Qabbalah c’è corrispondenza tra lo schema dell’albero di vita e lo schema del corpo. Le Sefirot sono intese da alcuni come raggi vettori, oppure come vasi spirituali, sfere di emanazione delle qualità e degli attributi che molti chiamano divinità. Le Sefirot sono anche centri di potere creativo e creatore. Rivelano la luce della cui energia sono ripiene le cose. Uno studioso moderno indica come le Sefirot non sarebbero gerarchizzate nel senso proprio del termine, ma piuttosto come modulazioni armoniche della manifestazione divina che, nello schema dell’albero della vita, si raggruppano in tre unità.
Nella cultura buddista, lo Stupa di Borobudur è il simbolo del Cosmo e rappresenta l’ascensione che, a partire dal mondo del desiderio e dell’illusione e attraverso il mondo delle forme (linea orizzontale, corpo), porta alla beatitudine assoluta. Il Tutto è rappresentato dal Buddha che, al centro, è seduto sul punto in cui girano gli opposti. La pianta del Borobudur è un cerchio inscritto in un quadrato: il cerchio sacro nel quadrato profano, l’uno necessario all’altro.
Torna in mente l’immagine che Platone dà dell’uomo come di una pianta rovesciata con le radici verso il cielo e i rami verso la terra. Analoga è la visione della tradizione islamica con l’immagine dell’albero della felicità. Nelle Upanishad, l’albero della vita spirituale parte dalla materia per risalire a un cielo che chiama le sue radici divine.
L’albero rovesciato sarebbe, dunque, l’immagine del cosmo e dell’uomo. Ascendere e discendere…
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