Farfalla

La metamorfosi della vita

di Anna Di Giandomenico

La morte comporta la possibilità di una trasformazione? Interrogarsi in tal senso è dare profondità alla propria esistenza. La nostra vita termina con la morte del corpo, o l’esperienza terrena è solo una tra le infinite dell’anima? Prendere una posizione può cambiare completamente il nostro approccio alla vita.

Sabato pomeriggio avrei avuto un appuntamento per un colloquio di counseling. Stranamente, la mattina mi sono ritrovata a percepire uno stato di angoscia esistenziale: ascoltando questo stato interiore, avvertivo che mi parlava di mancanza di senso, di dolore, di profumo di morte. Mi sono chiesta da quali meandri dell’anima provenissero queste sensazioni, sorte così – all’improvviso – senza un apparente motivo.
Sono “stata” (cercando di non sfuggire) nella singolare sensazione di aver forse già vissuto tutto quello che mi occorreva su questo piano di esistenza, nella prospettiva della fine. Che fatica!
Quando ho incontrato la mia cliente, ella mi ha descritto stati di ansia legati alla preoccupazione per la sua salute (a causa di qualche sintomo non ben diagnosticato, seppure con la certezza che non comportasse niente di grave); stati angosciosi per la percezione della propria mortalità, della propria fragilità, della vita che prende direzioni non desiderate.
«La vita – mi ha detto – assomiglia ai bastoncini di Shangai che vengono tirati e ricadono senza ordine apparente e poi, pazientemente, debbono essere ricollocati uno a uno». Successivamente, dando voce alla componente di un disegno scaturito dalle sue profondità interiori, l’ha definito “il ghigno di Stregatto” (il gatto di Alice nel Paese delle meraviglie): una parte di lei lo percepiva come il sogghigno del destino che si fa beffe dell’essere umano e un’altra parte come il sorriso ironico di chi insegna che la vita è una messa in scena e che occorre esserne un po’ distaccati.
Mi sono chiesta silenziosamente se sia possibile essere distaccati mentre si soffre, quando si nutre paura per un futuro incerto o non si desidera abbandonare chi si ama intensamente. Ho lasciato le domande sospese per seguire il filo del suo discorso. «La morte – ha aggiunto – è per me la fine di tutto, è un evento che toglie senso alla vita…. non so cosa mi aspetti». Stupefacente accorgermi che la persona che ho davanti porta tematiche che mi riguardano e conducono negli “inferi” del buco nero della morte. In quel momento ho sentito un profondo desiderio di scrivere al riguardo. Ecco com’è nato questo articolo.
La morte è un buco nero, un vortice che spazza tutto, oppure comporta la possibilità di una trasformazione? Perché si parla così poco del senso profondo della morte? Eppure, dovrebbe costituire uno degli argomenti più importanti per un essere umano. Se non ci si interroga al riguardo, si può vivere davvero assaporando il significato profondo dell’esistenza?
Il mistero Vita-Morte è, a mio avviso, un binomio inscindibile. Vivere senza la consapevolezza che la forma esistenziale che sperimentiamo su questa terra è transitoria, si traduce per me in un vivere a metà.
Di frequente, la preoccupazione angosciosa della morte genera vissuti depressivi connessi all’interruzione dei progetti intrapresi, alla percezione dell’inutilità degli impegni, alla separazione dalle persone che amiamo.
Sovente ci lamentiamo della fatica del vivere, ma non siamo disposti neanche a pensare di dover lasciar andare questa fatica per intraprendere esperienze nuove in altre dimensioni dell’essere. Esisteranno poi veramente? Come dice un vecchio adagio: «Chi lascia la strada vecchia (ad esempio, la vita sulla terra) per la nuova (la possibile altra forma di esistere), sa ciò che lascia, ma non sa quello che trova». Pur delusi, affranti, annoiati, meglio restare con i piedi per terra!
Eppure, ipotizzare almeno per qualche attimo che la morte possa costituire una porta verso una possibile trasformazione, potrebbe conferire maggiore dignità e profondità all’esistere.
Permettersi, come esseri umani, l’esperienza dell’albero che quando arrivano i freddi inverni, battuto dai venti sferzanti, accetta di perdere tutte le foglie rimanendo nudo e silenzioso tendendo i rami spogli verso il cielo plumbeo. L’albero non si ribella, bensì si piega al volere della stagione e sta. Poi, a primavera, si arricchisce di nuove fioriture che diffondono essenze profumate e che gradualmente si tramutano in frutti saporosi al palato.
Mi commuove la capacità dell’albero di continuare a farsi spogliare anno dopo anno (non sono innumerevoli morti?) eppure, a tempo debito, di produrre i suoi frutti. Mi parla dei numerosi mutamenti generatori di rinnovamento interiore e preludio alla grande trasformazione finale che potrebbe vivere l’essere umano. In natura tutto si trasforma. Allora perché l’uomo, che pure fa parte del creato, coltiva l’ostinato intento di permanere sempre uguale a se stesso, vivendo un’esistenza serena, priva di scosse, e non accetta di affrontare processi di metamorfosi?
Se – per assurdo – un bruco rifiutasse di mutarsi in crisalide e rinunciasse a subire le trasformazioni profonde che lo conducono a divenire farfalla, cosa succederebbe? La crisalide non potrebbe giungere a maturazione, l’involucro non si romperebbe e la farfalla non potrebbe uscire faticosamente dal bozzolo per volare tra i fiori dispiegando le sue ali colorate per nutrirsi del delizioso nettare.
Mi sovviene il detto di Lao Tzu: «Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo lo chiama farfalla». Ecco, non potrebbe accadere lo stesso per l’uomo? Quello che l’essere umano chiama morte, non potrebbe costituire l’inizio di una straordinaria trasformazione?
La formazione del bozzolo dov’è racchiuso il bruco evoca inevitabilmente l’immagine di un sarcofago all’interno del quale la morte si trasforma in vita! Quasi che la natura abbia creato questa condizione per insegnare all’uomo il mistero più importante della vita stessa: la trasformazione. Il bruco si trasforma da creatura di terra a creatura di cielo, aerea.
Dante Alighieri scrive: «Non v’accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l’angelica farfalla».
Il termine farfalla, dal greco psyché, è il simbolo dell’anima. Hermann Hesse scrive nel suo libro Farfalle: «La Farfalla è un emblema sia dell’effimero, sia di ciò che dura in eterno… È un simbolo dell’anima…». Allora è possibile che l’apparente disfacimento del corpo, nella morte che l’uomo affronta con disperazione mentre le sue cellule gridano: «Perché? (questa decomposizione?)», sia l’anticamera dell’anima per compiere un nuovo viaggio…

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