Porta Scala

L’ascesi interiore

di Claudia Finetti

Il cammino per la trasmutazione interiore si basa sulla ricerca della verità, prima di tutto riguardo la propria storia personale. Tale verità ci giunge sotto forma di immagini e di emozioni ad esse collegate. Ciò che oggi siamo dev’essere abbracciato integralmente, ma per farlo abbiamo bisogno di nuovi strumenti e nuove immagini.

“Beato colui che è prima di divenire. Poiché colui che è, è stato e sarà”

Queste parole di Gesù richiamano la nostra attenzione su qualcosa di essenziale: noi siamo già, ancor “prima di divenire”. Provando a ripetere dentro di noi questo loghion, possiamo sentire che si rinnova nel nostro intimo una promessa antica, un patto sacro che vibra nella nostra memoria più profonda.
Il divenire è il nostro nascere a questo mondo, è il divenire individuale e cosciente di un “io” che si si riconosce come separato dal resto della creazione. Rappresenta la nostra uscita dall’Eden, l’ultimo passo di una creazione che, grazie alla mente e all’amore cosciente dell’uomo, getta le premesse affinché l’Io possa tornare a Dio. La separazione che ci conduce alla nascita carnale genera in noi il distacco di due livelli: quello materiale del mondo in cui viviamo e nel quale ci immergiamo totalmente, e quello spirituale dal quale proveniamo e che, nel divenire, dimentichiamo.
Da tale distacco derivano probabilmente anche tutte le nostre nevrosi, parlando in termini psicologici. Sono la dimenticanza e la lontananza dal Sé che generano una caduta del senso della vita. Rincorriamo successi, relazioni sentimentali e ricchezza e magari li otteniamo, scoprendo però ogni volta, se solo ci fermiamo ad ascoltarci, che il vuoto è ancora lì, dentro di noi.
Che cos’è in fondo la nevrosi di cui si parla tanto? Possiamo descriverla come il grado di distanza tra ciò che siamo diventati come persone, da ciò che quindi facciamo, scegliamo e pensiamo, e ciò che eravamo prima di divenire, cioè il nostro essere spirituale originario, che nominiamo “Sé”. Più è grande la distanza tra ciò che eravamo e ciò che siamo diventati, più è profondo il nostro grado di nevrosi. Perciò si può dire che siamo tutti nevrotici, chi più chi meno, a seconda del grado di lavoro interiore teso al contatto con quel Sé che “era prima di divenire”. In altre parole, si tratta di compiere un cammino retroflesso verso quel bambino che entrerà nel Regno dei Cieli (la cui fragilità priva di maschere è tanto difficile da incontrare).
Ad esempio, sono nata per insegnare, progettare, o per fare musica? Se oggi sono un notaio probabilmente ho un certo grado di nevrosi. Siamo nati per sentirci amati, amare ed essere in armonia con gli altri? Se oggi ci sentiamo pieni di rabbia, di lamenti o di solitudine, abbiamo sicuramente un alto grado di nevrosi. La nostra malattia è nell’anima. Siamo sprofondati in un tunnel buio in cui non giunge più la luce del Sé, ci siamo scissi dall’unica Sorgente in grado di costruire il Senso della Vita.
Di solito il termine nevrosi si interpreta, nel linguaggio comune, come un disadattamento dell’individuo nei confronti dell’ambiente, si parte cioè dalla “pelle psichica” dell’individuo e si immagina un movimento verso l’esterno. Cosa intendiamo per pelle psichica? La corteccia esterna, la maschera, la persona che interagisce con il mondo, che si cala nei propri ruoli e nelle proprie convinzioni fino a sentirsi, essa stessa, quei ruoli e quelle convinzioni. Ecco che si cerca allora di adeguare un po’ meglio la maschera alle esigenze del mondo esterno, pensando di “superare” la nevrosi. Ma il vuoto che ci separa dalla nostra origine non può essere saltato per giungere direttamente sulla sponda del Sé. Ecco allora che se qualcuno minaccia il nostro ruolo o le nostre idee ci sentiamo giustamente in pericolo di morte, perché il nostro “io” sta vivendo in essi, e sente davvero di essere ciò che pensa e ciò che fa. Quindi ci difendiamo oppure attacchiamo, cercando di mantenere spasmodicamente il controllo. Non possiamo rinunciare alle nostre idee, perché sarebbe come uccidere noi stessi.
È quando sentiamo di essere realmente la nostra maschera che diventiamo nevrotici. Per questo la morte ci fa orrore, e giustamente, perché la maschera muore veramente e per sempre, insieme al nostro corpo. Non è così per quella parte di noi che invece è stata e sempre sarà, e se pian piano ci spostiamo a vivere in essa, inizieremo ad avvertire qualcosa di molto diverso. È come se le nostre radici psichiche affondassero nel profondo, fino ad abbeverarsi ad una Fonte dispensatrice di pace, di gioia, di pienezza interiore. Allora c’è un sesto senso che affiora in noi, ed è il senso della vita.
Per fare questo dobbiamo attuare un movimento inverso, andare cioè dalla nostra pelle psichica verso l’interno di noi, in una regressione consapevole e accompagnati dalla fiamma dell’amore. Dobbiamo iniziare a incontrare quel vuoto che ci separa dalla terra promessa.
In questo viaggio c’è un mondo da attraversare per avvicinarsi al Sé ed è un mondo dal quale siamo già passati prima di divenire. Non è ancora il Mondo Primigenio (malgrado quanto pensi una buona parte della psicologia) ma è un mondo che ci ha modellato nella forma e che ci ha partorito prima che nascessimo. Possiamo definirlo il mondo delle immagini.
Per questo motivo non dobbiamo considerare le immagini come frutto di fantasie infantili che nulla hanno a che vedere con la nostra realtà di individui adulti. Ed è per questo che si parla di cammino spirituale come di una via che utilizza simboli ed immagini. Sono le immagini che rendono il cammino vivo: allo stesso modo, quando si parla di una scuola spirituale viva è perché vi è una guida capace di abbeverarsi in quel torrente che eternamente scorre dall’alto in basso.
Le immagini hanno contribuito alla nostra formazione fisica e psicologica, e a partire dalla nostra nascita condizionano il nostro modo di vedere il mondo. Attraverso di esse possiamo quindi trovare la chiave per la nostra trasmutazione.
Mi richiamo, per fare un esempio, a ciò che una cara amica ha scritto in un articolo della nostra rivista: «Proviamo ad immaginare di avere un padre e una madre celesti». Ciò è estremamente reale, le immagini che scegliamo per ricordare i nostri genitori celesti (ebbene sì, abbiamo dei genitori celesti: come in basso, così in alto), sono realmente viventi, e ci collegano con la nostra parte che “è stata e sempre sarà”.
Gesù disse: «La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli ed immagini. Non la si può afferrare in altro modo». Possiamo entrare in contatto con delle immagini che siano più vicine al mondo di luce dal quale proveniamo, e al quale aneliamo ritornare con la nostra parte più profonda. Delle immagini che ci aiutino a rimodellare le parti ferite della nostra anima per renderle possibile un’ascesi interiore. È attraverso la creazione di nuove immagini, in forma di simboli o archetipi, che possiamo giungere all’unione dei molteplici opposti, e questo lavoro ci rende, noi stessi, creatori della nostra vita.
La separazione dallo Spirito ci rende come rami tagliati via dall’Albero della Vita: diventiamo secchi quando la linfa dentro di noi si esaurisce. Il processo fisico vitale ha un tempo definito, e può accompagnarsi all’oblio dell’anima. Ritornare al Sé è ricongiungere il proprio ramo all’Albero della Vita, il quale affonda le proprie radici nell’Infinito.
Però non possiamo, ad esempio, immaginare una madre dolce, tenera e accogliente se la nostra madre fisica è stata rigida, minacciosa, affettivamente sterile. Sono le nostre emozioni che creano le nostre immagini di tipo personale, quelle entità che vivono nel nostro inconscio soggettivo. Queste figure divengono gli occhiali con cui guardiamo alle relazioni e ai fenomeni del mondo. Ci sono esseri umani che non sanno sorridere, perché non hanno potuto portare immagini di sorrisi dentro di loro, così il loro cuore non li ha sperimentati. Questo sorriso possiamo iniziare a viverlo e a instillarlo nel nostro cuore, traendolo da nuove relazioni con individui o con entità luminose, da modelli che dolcemente ci incoraggiano…

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