Una preghiera essenziale

Una preghiera essenziale

Rubrica di Lluis Serra Llansana

Gentile Prof. Serra,
seguo da sempre questa rubrica e dalle sue risposte mi sento di poterle fare una domanda che credo potrebbe mettermi sulla giusta via di comprensione. Ogni tanto mi trovo a recitare la preghiera del Padre Nostro, e sento che ci possono essere dei significati profondi, ben al di là delle parole le quali, anzi, nella loro comprensione letterale mi mettono in difficoltà. Ad esempio, in che senso si parla di “debiti”? Come può Dio stesso volerci “indurre in tentazione”? La ringrazio di cuore per la sua risposta.

Le preghiere essenziali producono il loro miglior effetto goccia a goccia. Penetrano fino al midollo e scendono fino alla parte più profonda del cuore. La ripetizione cosciente delle parole permette di scoprire nuovi significati. Sono come semi che si depositano in una buona terra e generano frutti impensabili. Gesù stesso è l’autore della preghiera del Padre Nostro, il cui testo è raccolto dagli evangelisti Luca e Matteo, quest’ultimo, in una formulazione più completa, mentre Luca ne narra le origini in una forma più esplicita. Mette sulla bocca di un discepolo questa richiesta diretta a Gesù: «Signore, insegnaci a pregare, così come Giovanni insegnò ai suoi discepoli». Gesù propone loro una preghiera la cui introduzione è diretta a Dio come «Padre nostro nel cielo». Si tratta quindi di un testo di relazione filiale, amorosa, che riconosce sia la trascendenza divina che la sua implicazione nella vita degli uomini. A partire da questo inizio, si formulano sette richieste. Tre riferite direttamente a Dio: santificare il suo nome (senza deformarlo o manipolarlo), la venuta del suo regno (il primato di Dio che è il bene migliore per l’uomo) e la volontà di Dio (come criterio chiave delle nostre azioni personali e collettive). Nella seconda parte, si sgranano quattro richieste ancora: il pane quotidiano, il perdono delle offese, la forza di fronte alle tentazioni e la protezione davanti al male.
La sua domanda si concentra, soprattutto, sulla quinta e sesta richiesta, che hanno un immenso peso esistenziale. La quinta dice così: «Perdona le nostre offese (debiti), così come noi li perdoniamo a chi ci offende (ai nostri debitori)». Le offese possono avere molti e diversi destinatari. Un’offesa può essere diretta direttamente a Dio, ma senza dimenticare che qualsiasi offesa alla persona umana è sempre un’offesa a Dio. Chiedere perdono per le offese che causiamo non si riduce a un desiderio superficiale senza conseguenze. Le offese feriscono e bisogna curare le ferite, fino ad arrivare a cicatrizzarle. L’offesa inflitta richiede una riparazione adeguata. Non ci può essere una vita spirituale profonda senza porsi profondamente il problema del perdono. In questa richiesta del Padre Nostro non c’è spazio per la superficialità. Chiedo a Dio che mi perdoni, secondo la modalità con cui io perdono coloro che offendono me. Chiedere perdono senza che io stesso perdoni, è incoerente. Non è strano che Gesù dica: «Se nel presentare un’offerta all’altare ti ricordi che un tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono, davanti all’altare, va prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt. 5,23-24). Il perdono, la riconciliazione, è una pratica essenziale nelle relazioni umane, così come nella relazione con Dio, che è tutto amore e misericordia. Il padre, nella cosiddetta parabola del figlio prodigo, ama i suoi due figli, però il grande problema della riconciliazione sorge tra i due fratelli. Il maggior si sente incapace di perdonare il minore.
Nella sesta richiesta, si chiede: «Non ci indurre in tentazione». Tradizionalmente, si è usata questa traduzione. Il 22 maggio 2019, la Conferenza Episcopale Italiana, d’accordo con papa Francesco, ha adottato una nuova traduzione più affine al suo senso teologico: «E non abbandonarci alla tentazione». In spagnolo, si usa l’espressione: «E non lasciarci cadere in tentazione». Il testo originale greco è il seguente: «kαὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν» (Mt 6,41). La traduzione del verbo non risulta semplice: «Non permettere di entrare (in tentazione)». È una decisione che passa per il cuore di ogni persona ed è vitale nei tratti iniziali del percorso. L’espressione indurre può risultare equivoca, perché sembra che sia Dio colui che tenta. La tentazione viene dal diavolo, come vediamo nella vita stessa di Gesù che subisce tre tentazioni prima di iniziare la sua vita pubblica. Esiste una grande differenza tra tentazione e prova. La tentazione non spinge al male. Resisterle ci rende più forti, ma la nostra fragilità richiede l’aiuto di Dio per non soccombere. La prova, una volta superata, ci consolida. Chiediamo a Dio che la prova non superi le nostre forze. Per questo, il Padre Nostro si chiude con l’ultima richiesta: «Liberaci dal male».

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